venerdì 22 aprile 2011

Tre domande a... Dante Ferretti

Dante Ferretti, scenografo di cinema e di teatro di fama internazionale, ha lavorato con i più grandi registi italiani – intensa la sua collaborazione con Fellini – e stranieri tra cui Martin Scorsese, con cui ha realizzato otto film. Ha vinto due premi Oscar per The Aviator di Scorsese (2004) e per Sweeney Todd: Il diabolico barbiere di Fleet Street di Tim Burton (2008).
Ferretti, che affronta per la prima volta il titolo di Aida, torna al Maggio Fiorentino dopo aver creato le scene di Cardillac di Paul Hindemith (1991) e di Jenufa di Leos Janàcek (1993), entrambi con la regia di Liliana Cavani, e quelle de La bohème di Giacomo Puccini con la regia di Jonathan Miller (1994).

Le scene di quest’Aida sono di grande impatto visivo, soprattutto per le statue imponenti che dominano il palcoscenico. Sono l’emblema dello splendore dell’Egitto dei faraoni o simboleggiano piuttosto l’impotenza dei personaggi dell’opera di fronte alle ragioni del potere?

Le statue rappresentano chiaramente la grandezza dell’Egitto, l’ambientazione è l’Egitto. L’impotenza dei personaggi fa parte della storia; questo è ciò che la circonda. Ogni volta che ci si reca al Cairo ma anche nel resto del paese, tutto ciò che vediamo toglie il fiato per l’imponenza, soprattutto se si pensa a quando è stato realizzato. L’allestimento cerca quindi di ricreare la grandezza e l’imponenza di quello che era l’Egitto; lo fa con pochi elementi ma di una misura tale da fornire quest’impressione.

Una delle scene più difficili da realizzare è l’ultima: la tomba in cui muoiono Aida e Radamès. Quali soluzioni avete adottato con Ozpetek?

Durante l’opera ci sono, in lontananza, due statue, due reperti archeologici, con una persona che lavora, che scava. Nel quarto atto i reperti avanzano e vengono a costituire la tomba. Aida e Radamès si trovano nella parte inferiore, Amneris in quella superiore. È un fotogramma di un film: contemporaneamente si possono vedere ciò che si trova sopra e quello che è sotto, cioè la tomba. Non è altro che quello previsto dal libretto: la fedeltà è d’obbligo. Per quanto si possa inventare, il libretto e la musica dettano la scena; noi abbiamo realizzato soltanto la parte visiva. La scena è tutta scritta lì.

A proposito di cinema: quanto e in cosa cambia il lavoro dello scenografo nel passaggio dal mondo del grande cinema a quello del teatro e in particolare della lirica?

Non è tanto il lavoro dello scenografo a cambiare, ma il tipo di emozione che viene creata. Nel cinema si disegnano le scene, quando queste si possono costruire, o si trovano dal vero, poi si gira molto materiale che viene montato, tagliando quello che non serve. C’è più tempo. Mentre si gira si dà una certa emozione, durante la proiezione un’altra, poi si monta il film che alla fine esce nelle sale. In teatro, invece, si apre il sipario e non c’è uno schermo su cui proiettare il film: si crea qualcosa di molto più diretto fra palcoscenico e spettatori. In teatro l’emozione si riceve subito e l’impatto è molto maggiore.
Il lavoro preparatorio quindi non è molto differente nel cinema e nel teatro e punta in entrambi i casi a creare un’emozione: nel teatro si può cambiare qualcosa, come l’ambientazione o il periodo storico, ma in una, tre o quattro scene si deve trasmettere tutta l’emozione. Nel cinema si ha una visione un po’ più ampia poiché le storie si raccontano in maniera diversa.

Nessun commento: